Lo spirito natalizio cozza con le drammatiche vicende militari e sistemiche dei nostri tempi, invitando alla riflessione su alcune questioni fondamentali.
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Pubblicato anche su Attivismo.info, Sfero, Ovidio Network
La bontà evocata nel Natale rimane un concetto sempre più “residuale”, per non dire in via di estinzione, quando va bene relegato alle dimensioni di coppia, parentali e amicali, difficilmente in tutte e tre allo stesso tempo.
Con sempre meno riscontri collettivi, la bontà è così travolta dal cinico “progresso” umano, sempre meno pensata e pronunciata anche in ambiti letterari, scolastici, religiosi, è diventata una parola talmente “incredibile” e indicibile da risultare comica se presa sul serio, almeno nella vita vera.
Il suo contrario è invece assai popolare, consueto, menù quotidiano della realtà formato mainstream, che infatti cerca di bilanciarla ammantandosi dell’ipocrita “buonismo”, un sentore in effetti contrario alla bontà, ma sempre più uguale ai piani delle entità globali, finanziarie, private ed extrademocratiche, cui lasciamo gestire le piattaforme della stessa “società dello spettacolo integrato”.
Prima che la collettività si mediatizzasse completamente sapevamo, o speravamo, che in fondo non si fosse tutti così “cattivi”, non come ci ritrasmetteva lo specchio mediatizzato della realtà, un modello così potente, capace nel tempo di plasmare ai suoi fini la realtà stessa.
È infatti grazie alla tecnica, cui la cultura si è genuflessa e grazie al mancato controllo della politica, che lo specchio è stato sempre più capace di forgiare la realtà a immagine e somiglianza della necessità di controllo dei produttori di contenuti dello specchio stesso.
Fra bontà e cattiveria c’è comunque una sostanziale differenza, che non è solo data dal loro essere termini opposti in una dicotomia, c’è ben altro, che ha a che fare con la nostra mente e che possiamo inizialmente sintetizzare così: la cattiveria tende ad essere automatica, “reattiva”; può certo essere pianificata, resa automatica, anche in maniera apparentemente “razionale”, ma proviene sempre da profondità istintuali “psico-biologiche”, formatesi per assistere l’organismo nei momenti in cui la sua sopravvivenza è messa a repentaglio, momenti in cui non c’è tempo e modo di riflettere ed elaborare con piena cognizione di causa, momenti che si vanno a depositare nei meandri del cosiddetto “inconscio”, che invece è sempre pronto a far scattare tali meccanismi che diventano difficili da controllare, dal momento che ne siamo inconsapevoli; al contrario, la bontà vera, non quella “automatizzata in senso consumistico”, tende a provenire da un atto estremamente consapevole, volitivo, con cui si intende amare o aiutare un prossimo, o il prossimo in generale.
In fondo, stiamo parlando dell’essere umani, cioè capaci di tutti i comportamenti possibili, da quelli più abietti a quelli più altruistici, addirittura di sacrificio vero e proprio di se stessi per un bene superiore.
Stando così le cose, se nei momenti di pericolo o di grande stress la prima risposta che tiriamo fuori potrebbe essere istintivamente “feroce”, si potrebbe pensare che la nostra essenza sia sostanzialmente “cattiva”, se non malvagia, per niente altruistica, piuttosto egoistica: un sostegno a tutte le teorie che vedono l’uomo come un essere fondamentalmente individualistico e asociale, un animale evoluto, ma pur sempre “animalesco”, dotato sì di ragione, ma vista come sterile e freddo razionalismo; un essere pur sempre incapace di liberarsi della sua parte istintuale, ammesso che questa cosa sia proponibile.
A questo punto, potremmo anche pensare che tutto il bene e la creatività messa in campo dall’uomo siano essenzialmente finzioni, una mera affermazione di potenza, di abilità, di sostanziale e individualistica asserzione che “essere” sia bastante, senza alcun bisogno di un fine più elevato di equilibrio interiore ed esteriore, personale e sociale, intimo e universale, senza alcuna concezione che “essere”, per essere veramente tale, possa e debba essere tutto e tutti, in piena e consapevole responsabilità.
Il cosiddetto “stato di natura”, una concezione tanto in voga nella modernità, è contraddetto dallo stesso “contratto sociale” cui si è dovuti ricorrere per giustificare le azioni costruttive dell’uomo, nonostante il presunto egoismo dello stato di natura.
A ben vedere, tutte le tendenze volte alla consapevolezza, alla scoperta di un più alto punto di vista, di una migliore contemplazione da cui comprendere tutto, sono proprie della filosofia e della religione: l’uomo non è solo un “homo sapiens”, un “animale sociale”, un essere culturale e politico, ma è anche un essere filosofante e religioso.
Anche quando non si concepiscono come necessarie tutte le tendenze in tutte le direzioni qui espresse, l’uomo ha comunque creato una visione in cui tali aspirazioni possano essere compatibili fra loro, in cui il loro esercizio o non esercizio sia libero e non impedisca l’espletamento di qualsiasi predilezione da parte di ognuno in merito: questa visione si può riconoscere nei 30 diritti dell’uomo, che diventano pertanto, pragmaticamente, il punto più alto da cui gestire le faccende umane.
Dalla loro esistenza, datata 1948, i diritti dell’uomo sono di fatto diventati il programma politico più alto e necessario, ma evidentemente troppi interessi contrari e troppe concezioni politiche al servizio di tali interessi impediscono una loro possibile attuazione.
Spero che la breve, ma densa sintesi di concetti appena espressa possa far riflettere sulle questioni fondamentali che il cosiddetto “progresso” umano sta violando.
Il fatto che la storia sembri andare verso l’istituzione di quella che chiamo “tecno-distopia di controllo globale a carattere transumano”, dovrebbe spronarci a riconquistare la necessaria libertà di pensiero e del nostro essere, in modo da esprimerla politicamente prima che sia troppo tardi.
30 dicembre 2023
fonte immagine: PxHere