Un report sui nostri “disturbi”, che ci mostra comunque la ricetta
Pubblicato anche su Attivismo.info e Sfero
È una sera in cui sono solo, decido di rivedere Il Lato Positivo, un film che mi piacque assai, anche se non fino in fondo, sul quale al momento non trovai l’attimo di scrivere qualcosa.
Grande prova del regista David O. Russell, dotato di una “coralità scorsesiana” che mi avrebbe fatto impazzire definitivamente con il successivo, esplosivo, American Hustle… ma anche lì, zero righe: non scrivo professionalmente e in quel periodo avevo altro per la testa.
Ed ecco le nevrosi logorroiche e senza orari del protagonista Pat e della sua famiglia invadere il mio spazio in un modo che, nonostante la seconda, forse terza visione, non ammette distrazioni, tanto è forte ed incisiva la rappresentazione delle croniche “paturnie” dei protagonisti.
Padre e figlio – appena rilasciato dal suo ricovero coatto – non fanno altro che rinfacciarsi “patologie”, mentre la madre cerca invano di “mediare”, non capendo di essere un fattore determinante del quadro, anche se “in ombra”.
La comparsa di Tiffany, splendidamente dirompente e “inevitabile”, in tutti i sensi, catalizza gli “incasinamenti” del protagonista che la famiglia, nonostante tutto l’impegno, non riusciva completamente a sollecitare.
A questo punto, dato il titolo dell’articolo, cerchiamo di elaborare un “referto”.
Ebbene, coerentemente con quanto scrivo in ordine ai diritti umani ed all’approccio medicalizzante il comportamento umano, propongo una semplice riflessione che, data l’enorme casistica cinematografica sull’argomento, supera la pellicola in questione.
Quante volte abbiamo visto rappresentazioni del genere in cui, a ben vedere, i “professionisti” della “salute mentale” sono di fatto impotenti, e la loro “salvezza” farmacologica altro non è che una gabbia, con sbarre di altra natura, quando non una vera e propria lobotomia chimica?
Il regista non sembra interessato ad approfondire, anche se sarebbe bastata una battuta, addirittura ci rappresenta la “normalità” dell’approccio farmacologico con un “simpatico” dialogo fra i due protagonisti, senza indugiare sulle enormi problematicità di ordine medico, etico e deontologico.
Comunque, una speranza ce la dà, anche se lasciata alla nostra deduzione: i veri agenti “curativi” sono la vita e le relazioni, possibilmente non banali, certo non psichiatriche e non fotocopie delle “ossessioni” che possono aver accompagnato la nostra esistenza, ed a cui non abbiamo saputo dare risposta.
8 giugno 2021
fonte immagine: Wikimedia Commons, Flickr