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CREDERE DI ESSERE MACCHINE CI ESPONE ALLA TECNOCRAZIA

festivalfilosofia 2020

qui la versione dell’articolo per YouTube

Se la filosofia non si risveglia dal letargo materialista non riusciremo ad evitare la distopia delle macchine.

 

di Massimo Franceschini

 

pubblicato anche su Attivismo.info

 

L’appuntamento annuale italiano con la filosofia, esattamente Festivalfilosofia 2020, è dedicato al tema “macchine”: una profonda riflessione su un termine a cavallo tra intelligenza umana e artificiale.

Ce ne dà conto il Corriere della Sera del 15 settembre 2020 con l’intervento di uno degli stessi relatori, già Professore di filosofia teoretica, Carlo Sini, dal titolo LA MACCHINA VIVENTE, viene contrapposta al pensiero ma le dobbiamo l’evoluzione sociale.

Purtroppo, a mio parere, l’articolo rappresenta l’ennesimo esempio delle responsabilità della filosofia per l’attuale situazione culturale, caratterizzata in sostanza da un sostanziale “determinismo materialistico”: l’ennesima esclusione dell’ambito più alto del pensiero, anche spirituale e creativo, da un’evoluzione sociale che si vorrebbe in mano a vari automatismi.

Un’impostazione comunque non esente da sani interrogativi e da una sorta di appello finale, non disperato, ma comunque impegnativo, teso alla ricerca di qualcosa di “altro” che possa collegare i vari ambiti in oggetto.

Come possiamo immaginare il tema è assai delicato, soprattutto oggi, data l’incombenza di quello che a livello politico chiamo Regime Tecnocratico di Controllo Globale: il punto di arrivo “logico” per una cultura e una civiltà che hanno ormai dimenticato spiritualità ed etica, per abbandonarsi ai miraggi di una “tecnica transumanizzante”, sempre meno mediata e modulata da una reale “osmosi” fra ambiti culturali che dovrebbero essere almeno “pari” e dal necessario controllo politico delle società civili.

Come vedremo, nonostante gli interrogativi questa “dimenticanza” non verrà sanata, almeno in questa presentazione, lasciando le classiche domande della filosofia ancora inevase e, a mio parere, senza speranza: se non mettiamo in guardia sulle conseguenze del “materialismo scientista” vigente e non indichiamo le direttrici per una possibile concezione globale della realtà, che non sfoci in assolutismi tecno-sistemici, rischiamo che anche il solo porre dubbi e riflessioni possa essere considerato, dai signori della teoscienza, un vero e proprio affronto.

Andiamo con ordine.

L’articolo inizia parlando della “durevole superstizione” che ci affliggerebbe ancora oggi, in riferimento alle “macchine”, retaggio del compromesso instabile fra teologia e scienza che avrebbe le seguenti risultanze: «[…] oscillazione irrisolta tra spiritualismo immaginario (ciò che ancora attualmente si pensa come “mente”, senza però sapere cosa sia) e riduzionismo insensato, […] sino a certe posizioni di cultori delle odierne neuroscienze, i quali immaginano di poter mostrare che, in sostanza, tutto è macchina e intelligenza artificiale. All’altro polo la difesa della ragione umana, in quanto sarebbe opposta alla macchina, intesa come qualcosa di passivo, automatico, meccanico e simili».

Sposo certamente il termine “cultori” in riferimento alle neuroscienze, che annoverano fra i loro membri alcuni “ministri di culto” della moderna “religione scientista”, mentre credo che riguardo lo “spiritualismo immaginario” si debba iniziare a riflettere, come per il concetto di “mente”, che non si saprebbe cosa sia.

Credo che per una posizione realmente corretta, si debba iniziare a considerare la reale ampiezza di vedute per ambiti non riconducibili ad un’esatta misurazione materiale, altrimenti non dobbiamo lamentarci di quello che chiamo “materialismo neuroscientifico” vigente.

Non credo che parlare di “spiritualismo immaginario” aiuti ad affrancarci da certi fondamentalismi scientisti mentre, al contrario, si dovrebbe denunciare la deriva, appunto materialista e meccanicista, che permette spesso gravi violazioni dei diritti della persona: l’ambito del , dell’io, della mente, dello spirito o dei mille modi in cui si può inquadrare tale sfera, non deve essere lasciato agli automatismi di una politica al servizio delle corporazioni private, in questo caso farmaceutiche e tecnologiche.

Un’auspicabile politica culturale, consapevole delle violazioni dei diritti umani nell’ambito della bioetica, dovrebbe creare le condizioni, in piena trasparenza, affinché lo studio della “persona”, ora in mano alle corporazioni private, possa culturalmente evolversi dall’approccio moderno che sembra favorire, di fatto, l’avvento di una tecnocrazia invadente ed illiberale.

L’articolo prosegue con riflessioni in ordine al completo spettro di significato relativo ai termini collegati a macchina (mechané, mechanicus, machinator), tese a dimostrare «[…] il contrario della macchina intesa modernamente come un marchingegno passivo e stupido, opposto alla creatività del pensiero».

Riflessioni certo interessanti e filologicamente corrette, che però sembrano spostare troppo il focus sulla funzione, quasi “dimenticando” l’ente generatore, appunto il pensiero: non nominarlo chiaramente, o darlo per “scontato” contribuisce, a mio avviso, alla deriva materialista.

Continuando nella dissertazione, l’autore fa poi riferimento all’evoluzione degli organi naturali, le macchine del corpo e delle «[…] macchine strumentali che protendono, prolungano e potenziano gli organi naturali […] strumenti esosomatici di pietra, di osso, di legno ecc. che dai tempi ancestrali accompagnano l’evoluzione sociale umana. Macchine naturali e macchine strumentali. Senza la loro presenza e la loro efficienza creativa e istruttiva, gli esseri umani non sarebbero nati e non evolverebbero in una storia sempre più complessa e tuttora in pieno svolgimento».

Credo che spostare l’“efficienza creativa e istruttiva” dall’uomo alle macchine, vada oltre la descrizione del naturale processo del pensiero che si avvale di qualsiasi creazione, diretta o percepita come tale, anche per migliorare la creazione stessa e trarne ulteriori osservazioni e idee ancor più creative.

Che questa impostazione favorisca di fatto un “fondamentalismo deterministico-materialista” si evince, a me pare, proprio verso la conclusione dell’articolo in cui l’autore accenna ad una terza macchina, quella “verbale” o “retorica”, anche «[…] arte del ragionamento che trae ingegnosamente conclusioni da premesse».

Una macchina di cui saremmo assai più effetto che causa, sin dalla prima infanzia, una macchina dalla quale «[…] siamo ipnotizzati dall’uso costante che ne facciamo (e che in realtà molto di più essa fa di noi sin dalla prima infanzia), da non ravvisarne quasi mai gli effetti e la potenza».

Non intendo certo negare l’importanza ed i “pericoli” della parola, soprattutto quando si imprime con forza, o con modalità tali da renderne impossibile il controllo, quindi a livello subliminale, ma non mi sembra che l’autore intenda esattamente e solo questo, anche perché non fa cenno alla demolizione della scuola pubblica: la vera responsabile, oltre all’operato dei media, dell’insensibilità culturale moderna verso la grandezza della parola, una lacuna che ci lascia in balia di messaggi spesso inquietanti dal “pensiero unico dominante”, variamente mascherati da parole vuote, ma opportunamente ripetute.

Ecco, solo considerando le modalità con cui la cultura popolare, gestita dalle corporazioni globali, riversa una quantità infinita di ripetizioni di parole-cantilene sui nostri giovani, posso ritrovarmi con l’autore circa l’ipnosi della macchina verbale di cui non ravviseremmo la potenza.

E siamo alla fine dell’articolo, in cui Sini ammette, come a me pare, l’insufficienza del “determinismo materialistico”: «Resta però da comprendere: come si intrecciano da sempre le tre “macchine”? Essere in vita e discorrere: solo conoscenza, o altro ancora? E “altro” che…?»

Considero certamente questa chiusura la dimostrazione di un’indubitabile onestà intellettuale, però “non sufficiente”.

Qualsiasi posizione culturale, pur consapevole delle contraddizioni e delle “non soluzioni” poste dall’esposizione delle varie “parti in causa”, dovrebbe chiaramente mostrare la possibilità, anzi, la necessità di rimettere al loro posto, con una dignità almeno pari agli altri, gli ambiti del “pensiero” e dello “spirito”, nella loro vastità culturale, anche religiosa, liberandoli dalle pretese “misuratrici” e “diagnostiche delle psico-“scienze”, senza bollare ciò come “spiritualismo immaginario”: altrimenti non usciremo mai dall’impasse culturale, che vede materialismo, scientismo e tecnicismo vincenti su tutto, una situazione che ci lascia nelle “amorevoli” mani delle corporazioni private della tecnica.

Due giorni dopo, il 17 settembre, e sempre in relazione a questo Festivalfilosofia 2020, il Corriere ospita un intervento di Silvia Vegetti Finzi sull’eredità di Remo Bodei, scomparso nel 2019, dal titolo Le cyber-sfide dell’umanità. Il progresso delle tecnologie impone nuove riflessioni.

Il lancio dell’articolo è il seguente: «La nostra volontà rischia di impoverirsi una volta trasferita nelle macchine. Di fronte a tale minaccia serve un’etica del limite».

La necessità che questo appello debba essere preso in carico dalla cultura e dalla politica, con il faro guida dei diritti umani, credo sia quanto mai urgente: altrimenti, lasceremo campo libero alla promessa che le A.I. sostituiranno sempre più professionisti, la previsione più recente lo prevede anche per i giornalisti a partire dal 2025, finiremo con l’ammettere che anche la politica e la cultura stesse saranno più “efficienti”, se lasciati alle macchine.

Buon futuro a tutti.

 

22 settembre 2020

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