Una domanda scomoda sullo scientismo imperante
Scrivo spesso contro lo scientismo, la filosofia moderna che prevede la scienza come unica possibilità di conoscenza.
Sentiamo a riguardo cosa dice la Treccani:
Il particolare atteggiamento intellettuale di chi ritiene unico sapere valido quello delle scienze fisiche e sperimentali, e svaluta quindi ogni altra forma di sapere che non accetti i metodi propri di queste scienze. Il termine fu coniato in Francia nella seconda metà dell’Ottocento e si diffuse poi altrove, avendo di volta in volta significato positivo o negativo: si designarono polemicamente come scientisti (e di conseguenza come antimetafisici) i positivisti (per es., H. Taine); di contro impiegarono spregiativamente il termine coloro che, come E. Boutroux, vedevano nel determinismo positivistico e nell’affermazione dell’oggettiva necessità delle leggi naturali, estese anche al mondo umano, l’espressione di un rigido dogmatismo. Oggi il termine è usato solo nel suo significato negativo a indicare l’indebita estensione di metodi scientifici ai più diversi aspetti della realtà.
Ebbene, anche se me la prendo con lo scientismo imperante non ho niente da ridire contro la scienza, tutt’al più con chi ne fa ideologia e dogma, confondendola con il materialismo.
Ritengo la scienza un meraviglioso prodotto della mente umana, ma ne riconosco i limiti, occupandosi essa stessa di cose “misurabili”, che hanno quindi un “limite”.
E non uso certo il termine scientismo nel senso che la definizione gli attribuisce attualmente, non sono per principio contrario all’estendere i metodi della scienza a tutti gli aspetti della realtà, a patto che lo si faccia “onestamente” e che se ne traggano le conseguenze, quando opportuno.
Ci sarebbe quindi un uso improprio del metodo scientifico, chiederete voi e se è così dove, quando?
Forse parlare di uso improprio potrebbe essere esagerato, parlerei piuttosto di non corrispondenza fra ciò che si osserva e ciò che si fa, o si promuove.
Questa incoerenza l’abbiamo soprattutto, a mio modo di vedere, quando la scienza si occupa dell’ente essere umano: non ritengo sia questa un’incoerenza scientifica, bensì pretesa materialista che usa la scienza in modo improprio.
Cercherò di spiegarmi meglio ed a questo scopo credo sia utile fare esempi.
Abbiamo o non abbiamo un fenomeno e il suo opposto chiamati effetto placebo/nocebo?
Abbiamo o no una conoscenza abbastanza solida della cosiddetta plasticità cerebrale, che sembra differenziarsi anche da individuo a individuo? Una plasticità che sappiamo addirittura migliorabile e plasmabile da nuovi input culturali o attività psicofisiche?
Per non parlare di quanto, stando agli scienziati, si debba ancora scoprire quasi tutto sul cervello.
Sappiamo inoltre che persone affette dalla rarissima Idrocefalia conducono una vita quasi normale con un cervello grande quanto una noce.
Abbiamo osservazioni e rapporti da ipnosi regressive, in cui persone in stato di incoscienza ricordano quelle che sembrano essere vite passate, parlano altre lingue, oppure bimbi con abilità e conoscenze straordinarie, per non parlare delle ormai migliaia testimonianze successive a stati di pre-morte, in cui il soggetto vede e riconosce ambienti e persone relativi al periodo di incoscienza.
E poi guarigioni inspiegabili, premonizioni e tutta una serie di fenomeni psichici e mentali: anche se non spiegabili scientificamente e/o misurabili, dovrebbero porre più di un interrogativo.
Sono o no dati e fenomeni osservabili?
E ancora, come la mettiamo con le acquisizioni della fisica quantistica che sembrano evidenziare, anche se non spiegare, quanto la semplice osservazione di un fenomeno ne può cambiare andamento e risultato?
Penso che ogni altra scienza, alla presenza di così tante incognite e osservazioni controverse e/o ancora tutte da interpretare, acquisirebbe un atteggiamento per così dire… prudenziale!
Invece cosa hanno sempre fatto gli “scienziati umanisti”?
Non si sono mai astenuti dal manomettere pesantemente la vita e quella che ritengono la sede della coscienza: lobotomie, elettroshock, psicofarmaci e quant’altro.
Tutte violazioni dei diritti dell’uomo e del malato, sull’onda della peggiore intolleranza che considera “malattia” ogni comportamento diverso da una norma del tutto arbitraria.
Si promuovono filosofie di benessere anestetizzato e uniformato alle convenienze del regime di turno e allo status quo mentale di persone conservatrici, impaurite dalla libertà.
Mille sono gli “indizi” che dovrebbero imporre l’etichetta “delicato” al soggetto essere umano e impedire ogni aberrazione para scientifica spacciata per aiuto.
Trattare l’uomo con metodi da laboratorio, senza considerare l’enorme e polisemica cultura umanista, senza considerare le possibilità alternative di prassi non coercitive, non invasive, non puntare sul miglioramento globale dell’essere, delle abitudini e dell’autodeterminazione dei soggetti, sono errori di metodo assai sospetti.
Guarda caso lo psicofarmaco è diventato il business più grande dell’industria farmaceutica e il dibattito culturale è sempre più invaso dalle nuove star “tuttologhe”: psichiatri e neurologi.
Nelle università abbiamo nuovi dipartimenti di neuroetica, neurolinguistica, neuroeconomia e via dicendo.
Insomma, la domanda a cui mi riferivo nel titolo è questa: qual è l’assunto, il postulato, l’assioma o la determinazione che giustifica e permette alle psico-neuro-“scienze” di partorire prassi che contrastano palesemente con la loro assai parziale osservazione dell’uomo?
Oppure è tutta una questione politica di controllo tecnocratico e business?
Forse un filosofo della scienza potrà rispondermi, ma dovrà essere convincente!
4 gennaio 2015