Spiace leggere che un bravo musicista come Bollani scriva cose assai discutibili, proprio sul suo argomento
Premetto che a me non interessa criticare tanto per criticare ma interessa la musica, arte che ritengo versi in una assordante crisi creativa.
Troppo spesso in questo campo si leggono tesi strane e confuse, una materia questa in cui abbondano “autorità”, cosa in parte comprensibile data la particolarissima natura della musica, la più astratta fra le arti, ma anche la più matematica e “scientifica”.
Nel momento in cui scopriamo confusioni e superficialità di varia natura nell’opera di un “addetto ai lavori”, non si può più tacere.
Le numerose “imprecisioni” di vario carattere tecnico, filosofico, linguistico, semantico, grammaticale, tipografico e di altro tipo presenti nell’ultimo libro dell’acclamato pianista e showman Stefano Bollani, sono una clamorosa cartina tornasole della cultura musicale vigente, troppo superficiale, “ecumenica” e apparentemente democratica.
In omaggio a La Grande Bellezza , come direbbe Jep Gambardella: “In ordine sparso”.
La musica esiste in natura: ciò che non esiste è la “grammatica della musica”. Qual è il confine tra musica e rumore? Chi lo decide? In teoria tutto è musica. Non esiste in natura un sistema per distinguere un suono da un rumore. Affermare che per capire la musica si debba per forza possedere un certo bagaglio culturale, una furbata, spesso è una scusa per pigri, è una medaglia acquisita sul campo per chi crede di essere tra quelli che la “capiscono”. Avere gli strumenti per godere della musica non significa conoscere né l’armonia né l’epoca in cui è stata scritta né il retroterra culturale del compositore, ma riconoscere qualcosa che abbiamo dentro e che risuona.
E’ mai possibile che per descrivere l’immenso fascino di questa arte si debba ricorrere ad assurdità come quelle riportate, arrivando ad affermare addirittura che non esista un sistema per distinguere un suono da un rumore?
Il fatto che tutti i rumori possano diventare musica per effetto della manipolazione e dell’arte umana, non può giustificare confusioni analitiche di sorta: in natura esistono rumori, non suoni (ad eccezione di qualche animale, opera quindi di “intelligenza”, sia pur limitata all’evoluzione e alla necessità).
Per non parlare poi delle confusioni, anche espressive vista la doppia negazione contenuta nella frase, su tutto il concetto riguardante il “capire la musica”!
È ovvio che anche una persona ignorante di musica e della sua storia può capire la musica, dal suo punto di vista.
Ma il punto di vista è appunto il suo, che potrebbe non coincidere con quello dell’autore, addirittura non prevederlo affatto!
Se ad un contadino (faccio per dire, lo sono stato anche io ed ho conosciuto contadini intelligentissimi e colti…) faccio ascoltare Stravinskji, questi potrebbe dire che per lui è rumore!
Cosa ne dovrei dedurre?
Che in lui non c’è niente che risuona dentro?
Che fa parte di una razza intimamente e intellettualmente inferiore?
O magari pensare che quella di Stravinskji non sia musica?
È invece ovvio che esistono diversi livelli di comprensione e/o godimento per qualsiasi fenomeno, non possiamo equiparare certo la consapevolezza che può avere un musicista o compositore, da quella che ha un semplice ascoltatore.
Dentro ognuno di noi qualsiasi cosa può risuonare o no e molte sono le variabili in gioco.
E poi cos’è questa confusione/equiparazione fra il godere e il capire la musica?
Capire ha per forza a che fare con il conoscere, quindi con lo studio e l’applicazione, fosse anche solo quella dell’ascoltatore attento e metodico.
Insomma: a che serve questa “furbata”, se non ad avere più “pigri”?
[…] l’autore, fa risuonare tre volte l’accordo minore, risvegliando in noi ascoltatori il ricordo della Marcia funebre di Chopin… usa gli ottoni dell’orchestra per evocare atmosfere wagneriane, dunque epiche… furbacchione, usa un colpo a effetto per stuzzicare il nostro inconscio. Ci rimanda continuamente a Richard Wagner, che lo si percepisca oppure no.
Allora il furbo è proprio l’autore del libro!
Non credo che un ascoltatore senza bagaglio culturale conosca o possa riconoscere Chopin o Wagner… insomma, appena proviamo a tentar di capire qualcosa in più del “semplice” coinvolgimento emotivo, ci accorgiamo come non sia solo una questione di cuore e stomaco.
Aggiungere “che lo si percepisca oppure no” sembra tanto un salvataggio in corner…
Sul fronte opposto, in una partitura di musica classica si lascia poca libertà all’interprete. Per convenzione tutto è annotato e va rispettato. Pochi sono i dettagli su cui “giocare” (to play). La musica classica parte dal Dio spartito. Cominciano tutti da lì, dall’idea che in quella partitura di Bach ci sia un diamante da tirare fuori. E il lavoro dell’interprete rischia di somigliare a quello dell’archeologo o del decrittatore.
Discorso lungo sulla musica classica e sugli eccessi di interpretazione… ma, se il Dio è lo spartito, il diamante dovrebbe essere evidente, tutt’al più da tenere a lucido…
Bene, esistono casi più insidiosi di altri: per fare un esempio, Igor’ Stravinskij ha interpretato e inciso di persona le sue creazioni. Di fronte a quel disco cosa si fa? Ha ragione lui, dunque? Insomma: no. Hanno ragione anche gli altri. “Hanno tutti ragione” direbbe il Tony Pagoda di Paolo Sorrentino. La musica di Stravinskij, se vuole continuare a vivere, è bene che si lasci suonare anche da altri. Che avranno una visione parziale ma magari riusciranno a illuminare un lato nascosto di quel pianeta che neppure Stravinskij conosceva (a che è servita la psicanalisi, se no?)
Inserire la psicanalisi fa molto intellettuale… ma non credo che Stravinskij non potesse prevedere altre interpretazioni, i “lati nascosti” sono altra cosa, e intanto la musica langue fra l’ennesima riedizione/allestimento, l’ennesima cover band, l’ennesimo omaggio o rilettura, senza veramente niente di nuovo.
Se il Dio è lo spartito ha ragione l’autore, non credo ci siano lati interpretativi così nascosti in una partitura, a meno che non si decida di lavorarci sopra in profondità, andando oltre la mera esecuzione/interpretazione.
Insomma, si ha sempre ragione quando ci si prendono responsabilità (ri-arrangiamenti, rivisitazioni, traslazioni, innesti e sintesi), piaccia o meno!
La musica è fatta di influenze, spesso sotterranee, invisibili, che però sono fondamentali, anche per capire cosa si sta ascoltando. E Frank Zappa in questo senso è un caso limite, molto interessante. Per lui il mondo dei generi musicali non aveva senso, quindi lo dissacrava. Zappa cambiava venti atmosfere in un solo brano, con intenzioni parodistiche.
Frank Zappa non era solo dissacrazione, anzi!
La dissacrazione e lo sberleffo erano sì parte del suo linguaggio, ma non preminente, almeno come importanza artistica!
Non affermava che i generi non avevano senso, diceva, più o meno, che “tutti hanno fondamentalmente la stessa struttura”.
Questo lo autorizzava probabilmente a fare ciò che ha fatto, sorretto anche dal suo postulato del “progetto/oggetto”, con cui rivendicava l’autorità creativa e manipolatoria da parte dell’autore delle sue stesse composizioni, che erano in continuo divenire.
Spesso Zappa cambiava atmosfere, spesso faceva ancor di più, a volte con intenti parodistici, ma non sempre!
Per Zappa si addice benissimo il termine non molto più in voga di musica totale; ridurre un compositore complesso e ancora non ben compreso come lui al solo aspetto parodistico, senza evidenziare l’enorme lavoro di sintesi, nell’accezione più larga del termine, mi puzza tanto… e dove c’è fumo… andiamo avanti.
Non è casuale che Zappa emerga nel periodo della musica cosiddetta “fusion”, altrimenti detta jazz-rock, una mistura piuttosto rigida dei due generi che io personalmente ho sempre un po’ patito, proprio perché avanzava per blocchi, un po’ come certa musica contemporanea scritta: non fluisce; i blocchi si susseguono per spostamenti rigidi.
Questo è uno dei passaggi più “censurabili”, per vari motivi.
Innanzitutto Zappa diventa subito famoso dal 1966, per molte ragioni.
Il suo primo disco è anche il primo o il secondo doppio della storia della musica moderna e i due dischi sono completamente diversi; il secondo è una suite “selvaggia” e anticipatoria di moltissime cose future, per non parlare dei dischi successivi.
Con Uncle Meat, altro doppio del 1969, Zappa aveva già impostato praticamente quasi tutto il suo universo musicale, concettualmente e metodologicamente.
Che la musica fusion sia altrimenti detta jazz-rock è una “imprecisione” in cui l’autore cade anche se, a onor del vero, in buona compagnia, solo che sentirlo dire da uno come lui rattrista.
Zappa stesso non parlava invano contro i critici e i giornalisti musicali… evidentemente hanno fatto scuola!
La confusione generata dall’annoso dibattito sulle differenze/similarità dei due generi ha trovato, secondo me, un’ottima sistemazione negli scritti del musicista e musicologo Carlo Pasceri (ricordo il suo Tecnologia Musicale incentrato, a onor del vero, su ben altre e più importanti problematiche dell’universo musica).
Bollani afferma inoltre di patire questa mistura di generi perché avanzerebbe per blocchi senza fluire…
Ora, non so a chi si riferisca, ma affermare che la fusion e il jazz-rock non fluiscano, come fossero un collage schizofrenico di parti mi sembra a dir poco azzardato.
I massimi esponenti di questi generi hanno operato una sintesi mirabile e profonda di moltissime cose e linguaggi espressivi, anche dal punto di vista ritmico.
Da notare inoltre che non nomina il rock progressivo… probabilmente assimilato all’interno della dicotomia fusion/jazz-rock.
Gli piacevano i Beatles (n.d.a.: sempre di Zappa si parla), eppure li prendeva di mira. Nel già citato Sgt. Pepper’s c’era un po’ di tutto: l’orchestra sinfonica, il minimalismo, il sitar indiano, mancava solo il jazz. Il risultato è un capolavoro perché ebbero l’intelligenza di tenere separate le citazioni e la commistione non esclude che loro restino i Beatles. Zappa però prende bene la mira e va a colpire subito il loro punto debole (e dichiarato): la voglia estrema di essere rivoluzionari usando miriadi di informazioni per mettere in scena il trionfo del pop.
Ma che vuol dire?
Pensiero a dir poco confuso… “tenere separate le citazioni”… “commistione”… “punto debole”… “voglia estrema di essere rivoluzionari… per mettere in scena il trionfo del pop”… tutto un po’ poco oggettivo, secondo me.
Era quello un periodo di estrema creatività per la musica… è proprio la commistione, spesso sintesi (altro che citazioni) che connotava la specificità e la grandezza dei quattro!
Mi sembra che Bollani non sia esente, nonostante gli elogi, al vizio di certo giornalismo “colto” di sminuire implicitamente l’enorme lavoro fatto dai grandi della storia del rock.
C’è sempre il vezzo un po’ snob da parte dei classici o dei jazzisti di guardare, certo anche lodare la musica “popolare”, con un benevolo paternalismo.
Gli alfieri del pop-rock, Beatles e Zappa su tutti ma non dimentichiamo Hendrix e Santana, hanno fatto un’operazione di “ristrutturazione”, contaminazione e sintesi della musica, anche agendo su parametri che magari nella classica o nel jazz non erano considerati, certo aiutati dall’avvento dell’elettricità e dalle nuove possibilità espressive.
Certamente Zappa era anche dissacrante ma, coerente con la sua idea musicale estremamente ecumenica, i suoi “colpi” erano rivolti soprattutto agli esiti socio-culturali di alcuni artisti, e allora la citazione poteva anche essere quasi calligrafica.
Quando invece decideva di “usare” la loro musica lo faceva alla grande, se ne impadroniva donandogli una “dignità” nuova, il suo “punto di vista”.
Zappa non ha potuto diventare un caposcuola, perché la cover-band che rifà i brani di Zappa non ha capito che non si può rifare, dal momento che lui era già una parodia.
Qui la confusione e la mia perplessità è grande.
Si diventa caposcuola quando si formano cover band?
Aiuto!
La cover band normalmente cerca di riprodurre pedissequamente l’artista che ammira, anche nelle gestualità.
I veri artisti prendono ispirazione dal caposcuola, cercano di assimilarlo e lo aggiungono al loro background, il lavoro e lo spessore è ben diverso!
Zappa non si può rifare perché era già parodia?
Che vuol dire?
Perché non si potrebbe rifare la parodia?
Da che mondo è mondo le cover band questo fanno, replicano fedelmente o almeno ci provano!
La parodia è quindi una cosa di poco valore?
Allora perché Zappa era così grande?
La verità è che Zappa non è stato ancora compreso veramente nella sua visione e metodo, e infatti parlano tutti dell’aspetto più istrionico e cabarettistico, Bollani compreso!
[…] la cosa più “zappiana” che esista è italiana: Elio e le Storie Tese. Elio è uno Zappa tradotto in italiano con l’aggiunta di una serie di altri elementi dal punto di vista musicale […] In aggiunta, il gruppo di Elio è composto da bravissimi musicisti.
Prima accennavo al fumo… ecco l’arrosto!
Se non fosse per lo spazio dato a Zappa nel libro, sembrerebbe quasi che Elio valga artisticamente altrettanto.
Anche qui Bollani è in buona e campanilistica, e forse amicale, compagnia.
Questa affermazione denota un’incredibile cecità; Zappa ha, oltre alle parodie, un suo linguaggio, ha creato opere e temi particolari e unici!
Per non parlare delle metodologie!
Se andiamo ad analizzare i dischi di Elio non troveremo un solo passaggio che non rimandi a qualcosa di già fatto e famoso.
La loro abilità è proprio questa, fornire cocktails con ingredienti già dati.
Poi c’è la questione dei musicisti bravissimi.
La verità è che oggi come oggi, data l’enorme pletora di scuole, seminari e metodi in cui si privilegiano tecniche attuative e “dritte” strumentali, rispetto alla teoria, alla creatività e all’ottenimento di personalità, c’è un numero impressionante di musicisti “mostruosamente bravi” e veloci, ma che suonano tutti un po’ allo stesso modo.
A questo proposito riporto un calzante commento che il già citato Carlo Pasceri mi mandò nel periodo in cui affrontò l’argomento Elio e Le Storie Tese nel suo blog: “Innanzitutto ANCHE SOLO prendendo in considerazione il lato più leggero di Zappa, non si può confonderlo con Elio poiché c’è una differenza abissale tra la PARODIA di Elio e quella di Zappa: quella dell’italiano e dei suoi amici è soltanto un patchwork kitsch che in sostanza mira a provocare risate e basta e quindi è direttamente il prodotto finito, mentre quella del baffuto compositore-chitarrista critica di dentro il ‘soggetto-oggetto’ proponendo contestualmente una propria visione e interpretazione che è spesso, pure nel caso un’imitazione pertanto replica di alcune peculiarità, MAI pedissequa e terminale ma un ingrediente magari basico di una propria originale e ‘superiore’ composizione con un linguaggio musicale personale; dunque quando fa la parodia questa è un mezzo per finalizzare un brano che poi è suo, di Zappa e basta e non per far solo ridere ma per far criticamente ‘pensare positivo’ donando al contempo un nuovo oggetto musicale.”
Amen.
Per concludere, questo libro oltre a contenere i difetti che elencavo inizialmente, sembra provenire da una cultura solo attenta al “politicamente corretto”, inoltre argomentata insufficientemente e in maniera a tratti confusa, dato che l’autore è musicista acclamato e non semplice giornalista.
Non sembra certo questo il libro che risolleverà le sorti della musica.
2 marzo 2014
fonte immagine: Wikimedia Commons