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INSIDE OUT: UN FILM ESPLOSIVO DA MANEGGIARE CON CURA

Un film illuminante sulla concezione limitata dell’uomo da parte delle psico-“scienze”.

 

di Massimo Franceschini

 

Credo che l’ultimo film di casa Pixar meriti qualche riflessione.

Apprezzo da anni le migliori espressioni dell’animazione digitale e il regista Pete Docter, già autore di Monster’s & Co. e Up, si conferma essere uno dei massimi esponenti del genere, in grado di creare opere al contempo divertenti e profonde.

Il particolare soggetto del film contiene però dei rischi, per due motivi principali.

Il primo ha a che fare con la confusione presente nelle scienze umane riguardo tutto ciò che concerne l’ambito del mentale e della nostra sfera psico-emotiva.

Il secondo è una diretta conseguenza del primo e consiste nelle aberranti, coercitive e anestetizzanti pratiche della psichiatria e dell’industria farmaceutica, che non hanno niente a che fare con la medicina più seria e supportata da evidenze analitiche: manomettere chimicamente un organo così delicato e plastico come il cervello per “disturbi” che non sono malattie nel senso classico, ma che derivano da comportamenti o stili di vita sbagliati, da condizioni mediche o ambientali, da avvelenamenti vari o da problemi relazionali, è opera irresponsabile e pretenziosa.

Questi due punti fanno sì che il film in questione possa essere addirittura interpretato e usato in maniera scaltra, per “dimostrare” come a volte sia necessario governare chimicamente il “caos” emotivo; vediamo come.

L’autore ha avuto l’ottima idea, ai fini del racconto, di mostrare le emozioni dando loro una veste, facendone personaggi che parlano e interagiscono fra loro e che determinano scelte e azioni della protagonista che le esprime.

Sembra insomma che le emozioni siano un qualcosa di separato da identità, personalità, coscienza e volontà della protagonista, e che le scelte della medesima siano dovute alla prevalenza di una emozione sulle altre o da un compromesso fra loro.

Una logica purtroppo non lontana da quella psichiatrica che “si fa bastare” la causalità ormonale, o comunque fisico-ambientale, per i comportamenti e gli stati emotivi che passano per le nostre teste.

Il fatto di star bene o male, di essere una persona equilibrata e di successo, di avere un carattere ansioso o “perdente” dipenderebbe, secondo questa logica, dal funzionamento del cervello: il libero arbitrio, la risposta all’ambiente e le scelte della persona potrebbero non entrare nell’equazione “deterministica”.

È evidente che al regista poco importano queste considerazioni, faccio notare la cosa solo per far capire come questa schizofrenica inversione sia entrata sempre più a fondo nella cultura umana e nel modo di pensare.

Le dicotomie fra emozione e ragione, cuore e cervello, sono da sempre linfa vitale per l’arte e la letteratura, ma l’idea che la determinazione sul nostro vissuto e sulle nostre azioni/reazioni possa essere “in mano” ad agenti esterni non del tutto comprensibili e governabili è fonte di confusioni: ci lascia alla mercé delle “autorità” più accreditate, oggi in camice bianco, dalla parvenza “scientifica”.

Dopo aver diffuso questo articolo una prima volta ho letto altri quattro interventi, uno di Gramellini su La Stampa, uno di Polito sul Corriere della Sera e, sempre sul Corriere, quello del neuroscienziato Gallese e del filosofo Bonazzi.

Apprezzo l’intervento di Gramellini fino ad un certo punto, in quanto si limita a sottolineare il valore delle altre emozioni, rispetto alla gioia che sembra gestire normalmente la situazione, soprattutto della tristezza che ritiene, certo a ragione “[…] espulsa da qualsiasi discorso pubblico e privato. Trattata come un segnale di debolezza, una forma di sabotaggio. Lo sforzo quotidiano di un genitore consiste nell’allontanare dal figlio il fantasma della tristezza, quasi fosse una condanna a morte anziché un’occasione di vita. Ma un po’ tutti ne hanno paura e fastidio, a cominciare dagli imbonitori della politica che ci vorrebbero pervasi da un entusiasmo ilare e beota […]”.

Considerazioni che hanno certamente un senso, nell’ottica proposta, ma che non toccano minimamente le questioni che io pongo, alle quali si avvicina molto di più l’intervento di Antonio Polito dal titolo Il film per ragazzi senza la ragione, che infatti lamenta la mancanza della ragione e del libero arbitrio nel personaggio della bimba protagonista Riley, che “[…] vive in un universo morale in cui non c’è spazio per la responsabilità individuale, e di fatto per la libertà; dunque non ci può essere colpa o peccato, ma neanche si intravede una persona che non sia solo biologia. È forse il primo carattere nella storia del cinema senza un carattere. Il film è bellissimo, e, come vedete, fa riflettere. Ma è un segno dei tempi che nessuno abbia lamentato la scomparsa di quei due attori, la ragione e il libero arbitrio, che appena una generazione fa considerava indispensabili per l’edificazione di una vita adulta”.

Ebbene, io l’ho fatto con questo articolo il 27 settembre, che sto integrando a più riprese dopo aver letto altri interventi.

Anche se sono più vicino alle domande ed alle perplessità del Polito, non posso non far notare come anche lui non metta pienamente il dito sulla piaga, rimanendo troppo “politicamente corretto” verso quelle “scienze” che dovrebbero aver capito ormai qualcosa sull’essere umano, anche se non si esime dal far notare: “Dicono che il film conosce e rispetta le ultime scoperte della neurobiologia, e che le cose stiano più o meno così nel nostro cervello. Ma se stanno così, a che pro tutto lo sforzo dell’educazione, del buon esempio, del trasferimento di valori tra le generazioni, se non c’è una ragione a cui appellarsi?

Insomma, pone alcune domande giuste ma non ne trae tutte le conclusioni, perché evidentemente “incapace” di sottrarsi completamente all’abbraccio culturale delle “scienze” con il prefisso “psico-neuro”, tanto da non far caso, come la maggior parte di noi, al significato di alcune espressioni comuni in relazione alla domanda sulla nostra identità, espressioni come quel “nostro cervello” usato fin dal sottotitolo del suo articolo: se il cervello è nostro, se è una “cosa” che abbiamo, noi “cosa” saremmo?

Se continuiamo a parlare di cervello, se siamo implicitamente d’accordo con i camici bianchi più materialisti quando affermano che l’uomo è fondamentalmente un cervello senz’anima, non dovremmo lamentarci!

Gli altri due interventi confermano la sostanziale differenza di vedute da parte dei vari ambiti del sapere; abbiamo quella che secondo me è più estrema e criticabile del neuro scienziato Gallese, per cui l’uomo è probabilmente solo un insieme di circuiti cerebrali, che sentenzia: “[…] sappiamo che la maturazione completa del cervello […] avviene intorno ai 20 anni. È naturale che una preadolescente sia più spinta a scegliere i suoi comportamenti in base alle sollecitazioni delle emozioni, e non dopo una computazione precisa dei rischi e dei benefici.

Seguendo questa ottica, si potrebbe pensare che i giovani più responsabili e abili di alcuni “bamboccioni” di maggiore età, perché messi prima alla prova della vita, siano un po’… “anormali”!

Il loro cervello sarebbe mal funzionante? Magari abbisogna di una “correzione” chimica? Andiamo avanti…

Siamo all’intervento che mi trova più d’accordo ed è quello del docente e ricercatore di filosofia Mauro Bonazzi: “[…] Immaginare che siamo spinti solo da emozioni o istinti solleva problemi etici impegnativi. Lo notava già Kant: se le mie decisioni non sono libere, ha senso parlare di responsabilità o di bene e male?

Anche se ammette una grande importanza alle passioni umane afferma: “[…] Per Eraclito quando le componenti irrazionali sono forti nulla può trattenerle: il che spiega la violenza. Ma da Platone si afferma un modello che, fino a prova contraria, è ancora valido, nonostante le suggestioni delle neuroscienze”.

Infatti, dobbiamo capire che quando parliamo di emozioni parliamo di noi, non di altro: le emozioni rappresentano lo stato del nostro essere, hanno ricadute sul corpo, ma non sono “entità” separate dotate di individualità.

Questo non vuol dire che le varie emozioni siano indistinguibili fra loro, anzi.

Ogni emozione ha caratteristiche ben precise, e noi sembriamo quasi persone diverse quando agiamo in base ad emozioni abbastanza distanti fra loro.

Le emozioni positive sono più vicine alla nostra essenza e personalità, dato che in quel momento siamo più equilibrati, quindi più noi stessi, quelle negative ci trasformano e possono far sì che la vita sembri un inferno.

Questo il film ce lo fa chiaramente vedere: è con la gioia che “si tira avanti la baracca”, mentre le scelte prese dalle altre emozioni portano vari tipi di guai.

Sono la gioia e le altre emozioni positive a darci più energia, quella forza di vivere che si perde man mano che ci si fissa su emozioni di livello più “basso”.

Qui il Gramellini non coglie la cosa, limitandosi ad affermare che la tristezza “[…] sa aprire squarci che permettono di guardarsi dentro da una prospettiva nuova. Rende consapevoli. Dunque umani”.

Sono pienamente convinto che la conoscenza di noi stessi passi anche per la consapevolezza delle nostre emozioni, ma attenti a dare un valore “eccessivo” e fuorviante a quelle negative.

Il film ci fa anche vedere quanto sia importante che tutte le emozioni possano essere espresse e comprese dagli altri.

Reprimere o inibire qualsiasi emozione non è consigliabile, tranne in alcuni frangenti in cui non ci dovremmo “permettere”, se capaci, di perdere il necessario equilibrio.

Quando la “repressione emotiva” diventa meccanismo automatico di “integrazione” famigliare, lavorativa o sociale, dovremmo sentirci sempre autorizzati ad essere noi stessi!

Quindi, per concludere, andiamoci a divertire con questo grande film, ma… ricordiamo a chi appartiene la nostra testa!

 

27 settembre 2015, modificata 5 e 9 ottobre
fonte immagine: flickr

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